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Arte & Cultura

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TAPPA 11 : LOVERE-GANDINO

Santuario Beata Vergine della Torre Sovere

Anzitutto premettiamo che il titolo di «Madonna della Torre» è dovuto al fatto che anticamente in quel luogo era esistita una torre, un fortilizio militare dove in seguito venne innalzato l'attuale Santuario

Il Santuario della Madonna della Torre sorge isolato su un’altura che domina l’abitato di Sovere ed è considerato uno dei più antichi, oltre che più belli, della diocesi di Bergamo.

È posizionato sulle pendici del monte Cornalunga e domina le valli Borlezza e Cavallina: anticamente vi passavano strade che conducevano a Bergamo, percorse da eserciti e invasori. Oggi il santuario è posto in un’oasi di verde veramente incantevole.

Una sorta di “ gigante di pietra “: la torre sembra davvero un gigante di pietra che veglia sul borgo da tempo immemore.

Già la denominazione del Santuario rimanda a tempi remoti, quando le torri fortificate erano parte dei sistemi di difesa. Anche Sovere ne vantava più d'una, ancora in parte visibili. Dall'altura, sulla quale sorge oggi il Santuario, con ogni probabilità una torre dominava la valle Borlezza, a presidio dell'importante via di comunicazione che la percorreva e delle popolazioni ivi insediate. Ma ricostruiamo brevemente la storia di questo luogo sacro. Esisteva qui, come dicevamo,  una torre di guardia, presidio militare di importanti vie di comunicazione.

Il principale motivo di una torre in quella località era per difendere Sovere dalle frequenti incursioni  dei Guelfi che lo rendevano teatro di stragi sanguinose. Nel 1365 e nel 1393 Sovere fu rasa al suolo dai Guelfi. Nel 1405 il Malatesta fece sfollare il paese al completo e lo vendette metà a Castro e metà ad altri della Val Seriana. E la torre di Sovere era appunto un posto di blocco militare ghibellino contro i terribili Guelfi che tramavano continue insidie.

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Resta solo quella torre di un antico castello. Si narra che il signore del maniero, ormai perduto, aveva fatto affrescare in una stanza la Madonna nel momento in cui accetta la volontà di Dio, annunciata dall’Arcangelo Gabriele. Dell’ampio affresco la rovina del tempo ha risparmiato solo la figura di Maria. Quel che rimane (ora sull’altare maggiore) ci mostra una Madonna dal volto amorevole, con il capo leggermente chinato nell’atto di dare il suo assenso: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”.  Tiene le braccia intorno al grembo, come già a voler proteggere il Figlio che nascerà.

Ed eccoci ai primi secoli del Medioevo. Quando Carlo Magno discese in Italia per combattere contro i Longobardi; nell’801, conquistò Bergamo e concesse alla città molti privilegi, tra cui la costruzione di questo santuario dove esisteva la torre di guardia. Doveva essere una cappella con annesso edificio agricolo di cui abbiamo notizia in un documento del 1192. Non sappiamo quando il Santuario fu edificato, ma in uno scritto del 1169 il papa fa donazione al vescovo di Bergamo della chiesa di Santa Maria della Torre e dei beni in sua dotazione. È presumibile che la chiesa avesse una sua storia consolidata prima di quella data.

Passarono gli anni e il tutto andò in rovina. Cadente, demolito perché pericoloso, gli abitanti di Sovere decisero nel 1598costruirne uno nuovo, più bello, più vasto del primo e che non trovasse rivale in tutta la Diocesi.

Lo iniziarono nel 1603. Il progetto fu dell’architetto Gavazzo, di cui in realtà mancano notizie certe. Le grandi colonne monolitiche, che sono una vera meraviglia, vennero trasportate da Sarnico via lago e poi trainate da più paia di buoi nel 1605; gli stucchi furono iniziati nel 1607 da Lorenzo Porta di Bergamo e indorati con vero oro zecchino tra il 1610 e il 1620 da Battista Agazzi di Bergamo

LA VISITA

Arrivati al piazzale del Santuario  entriamo nella cappella della Deposizione. Una cancellata chiude il Santo Sepolcro, il cui soffitto è a vele ed è un resto dell’antico Santuario. È un luogo di grande intensità spirituale. Poi, ci portiamo nel piazzale antistante. Sul fondo un cosiddetto Calvario:  una cappella con la rappresentazione della Crocifissione di Gesù. Sull’architrave del portalino d’ingresso in pietra di Sarnico, si legge Il Monte Calvario. La cappella è stata eretta nel 1613, e su un alzato di roccia è rappresentata la grande scena sacra. I tre crocifissi (Gesù e i due ladroni) sono di uno scultore ignoto, del Fantoni sono invece le tre statue lignee della Vergine, della Maddalena e di San Giovanni Evangelista. La scena è di forte impatto; su due tavolette, una ai piedi della croce, l’altra ai piedi della Madonna leggiamo: Quando corpus morietur fac ut animae donetur paradisi gloria (Quando il corpo morirà, fa’ che all’anima sia donata la gloria del paradiso); Stabat Mater dolorosa juxta crucem lacrimosa (Stava la madre addolorata, piangente presso la croce).

Lasciamo la cappella per giungere  finalmente al Santuario. La facciata è costituita da un grande portico (le colonne sono anch’esse in pietra di Sarnico) che fa da protiro: vi si aprono la porta d’ingresso affiancata da due grandi finestre. Il portale architravato ha un timpano semicircolare sul quale leggiamo l’invocazione Regina coeli laetare alleluja, alleluja (Regina del cielo rallegrati, alleluia, alleluia): nel lunotto è raffigurata L’Annunciazione.

Vi son altri due ingressi laterali al Santuario: il portalino nord reca la scritta Ave Gratia plena Dominus tecum (Ave piena di grazia, il Signore è con te), quello sud Ecce Ancilla Domini fiat mihi secundum  Verbum tuum (Ecco l’ancella del Signore, si faccia di me secondo la tua parola). In uno della fila di archetti gotici del sottogronda di questo lato sud è stata ritrovata la data 1486.

L’interno del santuario colpisce il pellegrino per la sua bellezza. Si tratta di un’aula a tre navate con volte a crociera, divise da colonne monolitiche in pietra di Sarnico su cui poggiano archi a tutto sesto. Le volte e parte delle pareti sono completamente decorate da meravigliosi stucchi dorati, raffiguranti fogliami, angeli e angioletti. All’interno tondi o lunotti dipinti. Si tratta del tentativo di raffigurare il paradiso (di cui la chiesa è segno) come un bosco popolato di angeli e santi: è il nuovo giardino dell’Eden nel quale Cristo è l’albero della vita.

Il Santuario è una vera e propria pinacoteca. L’Annunciazione ( 1597)  del coro è di Gian Paolo Cavagna (1550 –1627), Le Dodici Sibille (sopra la volta del presbiterio) e le altre tele dell’abside sono di Domenico Carpinoni (1613-1620). La Vita di Maria e Personaggi dell’Antico Testamento, sparsi nelle volte, sono di Cifrondi, artista di Clusone e di Marziale Carpinoni. La tela dell’absidiola destra raffigura La Madonna con San Pietro e San Martino ed è di autore ignoto (1650); quella dell’absidiola di sinistra, Sant’Agata e Santa Lucia, è anch’essa di anonimo (sec. XVI-XVII).

Meravigliosa la cantoria e la cassa dell’organo di Alessandro Armani di Vertova (1680-1683), dell’intagliatore Gian Maria Ongaro di Gandino, coadiuvati dai Fantoni di Rovetta.

L'altare maggiore, in marmo policromo, modellato e decorato a intarsio di Andrea  Fantoni (che realizza anche il gruppo dei dolenti nella cappella della Crocefissione tra il 1729 e il 1735)  è sormontato al centro dalla piccola tribuna con l'affresco che ritrae la Madonna dal volto dolcissimo, il capo appena inclinato, nell'atto di dare all'annuncio dell'Angelo l'assenso, col quale Ella accetta di diventare la madre del Redentore, e le braccia delicatamente incrociate sul petto, come a volere proteggere il Figlio che già porta in grembo. L’immagine della Madonna della Torre (parte di un affresco che raffigurava L’Annunciazione ) sull’altare Maggiore è stata portata dal  piccolo precedente santuario nel 1486.

Come dicevamo si ignora come si presentasse in origine il dipinto. Faceva forse parte di un affresco più grande, che riproduceva la scena dell'Annunciazione e del quale i nostri antenati ci conservarono solo un particolare, per loro di tanta forza espressiva, pur nella sua semplicità, da farne il cuore del Santuario che vollero dedicare alla Madonna. I numerosi ex voto, molti dei quali tappezzavano le pareti della cappella detta dell'Angelo, sulla strada per il Santuario, comprovano la fiducia sempre premiata che da secoli i Soveresi ripongono nella loro Madonna.

La stessa ferma fiducia convinse, più di mille anni fa, a intitolare a Maria la chiesa eretta dove prima si ergeva una torre fortificata. Maria divenne la nuova torre di difesa, sotto la quale i nostri padri intesero trovare rifugio, incoraggiando anche noi a seguirne l'esempio. È la stessa fiducia che ha ispirato la più antica preghiera mariana, ancor oggi tra le più belle e in singolare sintonia con le attese di quanti accorrono al Santuario della Madonna della Torre: "Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio; non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta".

Ultima bellezza da ammirare sono gli affreschi del ’400 emersi sulla parete della navata di destra. Sono ex voto, martellati per farvi aderire  un nuovo strato di calce. Vediamo, tra vari santi, una bellissima Madonna con Bambino, un San Bartolomeo, un San Girolamo, una Trinità alla Masaccio (il Padre Eterno in trono che tiene tra le mani la croce di Gesù e la colomba dello Spirito tra i due volti).

Rifugio Malga Lunga

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Rifugio malga lunga - museo resistenza: Sovere teatro di una tragica battaglia della resistenza partigiana. Luogo panoramico (La Malga Lunga è situata sul monte di Sovere a mt.1235 di altitudine)

Il Rifugio Museo Malga Lunga è situato sul Monte di Sovere con bella vista panoramica sulla Val Borlezza, la Val Cavallina e i Laghi di Iseo e di Endine.

Nei locali del rifugio è stato ricavato un museo che conserva le testimonianza della lotta partigiana: foto, lettere, manifesti, proclami e alcuni oggetti.

All'esterno dell'edificio ci sono cippi e targhe commemorative dei partigiani caduti. Su una lastra di marmo è inciso quanto segue: "In questo luogo il 17-11-1944 un gruppo di partigiani della 53a Brigata Garibaldi venne catturato dalla famigerata Tagliamento fascista. Il sovietico Efanov -Starik- e Mario Zedurri -Tormenta- vennero uccisi immediatamente. Giorgio Paglia -Giorgio- comandante del distaccamento, Guido Galimberti -Barbieri-, Andrea Caslini -Rocco- e i sovietici Donez, Molotov Copenko Noghin vennero fucilati alcuni giorni dopo al cimitero di Costa Volpino.

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Storia

Nell’estate del 1944 in Italia la Resistenza armata è in costante espansione; lo spontaneismo dei primi tempi dopo l’8 settembre 1943, sta cedendo progressivamente il passo a forme organizzate, anche se non mancano le contrapposizioni e le diversità; è la stagione dell’ottimismo, dell’illusione che la guerra stia per finire, anche per effetto dell’avanzata degli alleati.

A questo processo non sfugge la Resistenza bergamasca, la quale mette al suo attivo alcuni significativi successi militari (Fonteno, Corna Lunga e Manina). Il successivo affievolirsi dell’offensiva alleata facilita l’organizzazione dei rastrellamenti nazifascisti e anche la Resistenza bergamasca subisce pesanti sconfitte (Petosino, Malga Lunga, Cornalba).

La vicenda della Malga Lunga non può essere scissa da questo contesto e diventa esemplare per comprendere un momento della storia della Resistenza e, in particolare, della Resistenza bergamasca.

Anche per questo motivo la Malga Lunga è stata concepita non solo come museo della “53^ Brigata Garibaldi”, ma come Museo della Resistenza bergamasca.

Nel 1944 alla Malga Lunga si insedia una squadra della 53^ Brigata Garibaldi che assume il nome “13 Martiri di Lovere” in onore dei tredici partigiani fucilati a Lovere il 22 dicembre 1943 (Francesco Bessi, Giulio Buffoli, Salvatore Conti, Andrea Guizzetti, Eraldo Locardi, Vittorio Lorenzini, Giacinto Macario, Giovanni Moioli, Luca Nikitsch, Ivan Piana, Giuseppe Ravelli, Mario Tognetti, Giovanni Vender).

Il comandante Giovanni Brasi (“Montagna”) ne affida la gestione alla squadra del tenente Giorgio Paglia (“Tenente Giorgio”), formata da una quindicina di uomini, mentre il comando della Brigata si istalla a Campo d’Avene, distante mezz’ora di marcia.

Il 17 novembre 1944 la Malga viene attaccata di sorpresa da ingenti forze fasciste della Legione Tagliamento. Da giorni, le zone operative delle formazioni partigiane erano percorse da fitti rastrellamenti. I fascisti della Tagliamento giunsero di sorpresa alla Malga Lunga verso le ore 12. L’imboscata fu favorita da una serie di circostanze avverse, dal mancato allarme della sentinella al fatto che la squadra quel giorno si trovava a ranghi ridotti perché un gruppo di uomini era impegnata fuori reparto, per motivi legati all’attività partigiana.

Sono otto i partigiani nella Malga: con Giorgio Paglia vi sono Guido Galimberti (“Barbieri”), Andrea Caslini (“Rocco”), Mario Zeduri (“Tormenta”), i russi Semion Kopcenko (“Simone”), Alexander Noghin (“Molotov”), Ilarion Efanov (“Starich”) e “Donez”.

La battaglia infuria per quasi tre ore finché gli assalitori riescono a raggiungere il tetto e a lanciare all’interno alcune bombe a mano, costringendo alla resa i partigiani ormai a corto di munizioni. Giorgio Paglia e i suoi uomini si consegnano ai fascisti con la promessa di avere salva la vita. Tra i partigiani vi sono due feriti gravi, il russo Ilarion Efanov “Starich”, colpito da una bomba a mano fascista, e Mario Zeduri “Tormenta”, rientrato in Brigata proprio la mattina del 17 novembre, ancora sofferente per le lesioni riportate nella battaglia di Fonteno dell’agosto 1944.

I fascisti non mantengono la parola e i due feriti vengono finiti immediatamente sul posto a colpi di pugnale. I sei partigiani superstiti vengono trascinati a valle nonostante il tentativo (ostacolato dalla neve alta) da parte degli uomini del comandante Brasi di liberare i prigionieri lungo la discesa. Quattro giorni dopo, per tutti, c’è la condanna a morte.

A Giorgio Paglia si vuole concedere la grazia perché figlio di Guido, medaglia d’oro della Guerra d’Africa. Non avendo ottenuto la libertà anche per i suoi compagni, il giovane la rifiuta e anzi chiede di essere fucilato per primo per dimostrare ai compagni che sarebbe morto con loro.

Sono le 18.00 del 21 novembre 1944 quando i sei prigionieri vengono fucilati sul lato sinistro del cimitero di Costa Volpino.

Nello stesso giorno, poco distante, al cimitero di Lovere, venivano fucilati anche i fratelli Pellegrini, Renato e Florindo, (“Falce” e “Martello”) catturati il 20 novembre nei rastrellamenti di Covale.

 

La Malga Lunga è il simbolo della Resistenza bergamasca, un luogo capace di parlare per tutta la nostra Resistenza.

Il progetto di ristrutturazione della Malga Lunga per ricavare uno spazio idoneo ad ospitare il museo multimediale e l’aula didattica, corona il sogno perseguito dai partigiani della 53ª Brigata Garibaldi fin dagli anni Settanta e consente di porre il rifugio partigiano tra i luoghi della memoria e nei percorsi di formazione alla partecipazione democratica e alla vita civile del Paese.

La Malga Lunga  è diventata dunque il luogo simbolo della Resistenza bergamasca, dove generazioni di antifascisti e democratici hanno potuto conoscere la storia, le fatiche e i sacrifici dei partigiani per la riconquista della libertà e la costruzione della democrazia.

MUSEO

Nel luglio del 2013 è entrato in funzione il Museo multimediale interattivo della Malga Lunga. I visitatori, toccando semplicemente uno schermo video con un dito, possono consultare gli elenchi delle formazioni partigiane che hanno operato nella provincia di Bergamo o dei bergamaschi che hanno combattuto per la libertà in altre zone d’Italia oppure all’estero. Sono altresì menzionati coloro che, pur non avendo partecipato alla lotta armata, si sono prodigati in favore della Resistenza.

Il punto di forza del Museo sta nella possibilità continua di essere aggiornato e implementato con nuovo materiale

Santuario Madonna d’Erbia - Casnigo

Casnigo è un paese di origine antichissima, come testimonia il primo documento scritto che lo riguarda che risale all'anno 905. L'abitato di Casnigo sorge a 514 mt di quota, su un altopiano che domina un lungo tratto della sponda sinistra del fiume Serio, a circa 23 Km da Bergamo. Il nome "Agher" (da "ager" parola latina che significa campo, campagna), con cui gli abitanti chiamano ancora oggi il pianoro, un deposito alluvionale che in passato era coltivato intensamente per la sua fertilità, sembra avallare la versione più diffusa circa le origini del paese.

Nel secolo II A.C. i romani iniziarono la penetrazione nelle Orobie e, in seguito, stabilirono un presidio militare nelle zone Vertova-Casnigo a protezione delle miniere dell'alta Valle Seriana. Da uno di questi accampamenti, con tutta probabilità, prese origine il primo insediamento che sarebbe poi diventato l'abitato di Casnigo. Nel 1991, sull'Agher, a poche centinaia di metri dall'abitato, sono stati ritrovati addirittura resti preistorici (presumibilmente dell'età del ferro) che farebbero risalire, quindi, i primi insediamenti umani sul pianoro ad epoche ben più remote.

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L'Apparizione della Madonna

In cima al Monte Erbia, a circa 4 km dal paese, si erge il piccolo Santuario della Madonna d’Erbia a poca distanza dal Santuario della Trinità. Su tale colle esisteva già una chiesetta edificata dopo un intervento miracoloso accaduto il 5 Agosto 1550. Secondo la tradizione, presso la cascina di un contadino del luogo, si trovava un'immagine molto venerata raffigurante la Madonna Del Presepe. Per accedere all'immagine i numerosi pellegrini attraversavano i campi circostanti calpestandone l'erba. Il contadino, infastiditosi sfregiò a colpi di zappa il dipinto che, durante la notte, magicamente ricomparì.

Un certo Carlo Lanfranchi, amico di Luigi, invitò questi ad accompagnarlo sul monte Erbia a portare da mangiare alle galline che aveva lì, chiuse in una cascina. Accompagnato l'amico, Luigi proseguì fino al fienile di proprietà del padre, poco distante, e trovò il fienile chiuso a chiave. Improvvisamente si scatenò un temporale di proporzioni spaventose e Luigi, spaventato, e per proteggersi dal vento e dalla pioggia si ricoverò sotto il portico della chiesetta della Madonna dell'Erbia. Era la sera del 6 agosto 1839.

Il bambino, ranicchiato nel cantuccio destro del portico, continuava a piangere e a lamentarsi, quando all'improvviso sentì schiudersi con gran fracasso la porta a due battenti della piccola chiesa e da essa vide uscirne la Madonna, vestita di bianco e di rosso, con in braccio un Bimbo, che gli disse:

"Non temere o Luigi, vieni con me che ti porrò a dormire, e sta quieto che tra una mezz'ora verrà tuo padre".

Alla domanda di Luigi che voleva sapere dove l'avrebbe condotto, Maria rispose:"Qui sul fienile, che sebbene chiuso a chiave io aprirò".

E così dicendogli lo prese per mano e lo condusse all'uscio del fienile che si schiuse da sé. Una volta entrati la Madonna prese del fieno e ne fece un giaciglio, quindi lasciò un pane al bambino dicendogli di stare quieto e di non temere e poi disparve. Luigi mangiò parte del pane e poi si addormentò, svegliandosi più tardi quando sentì la voce di suo padre chiamarlo per nome. Il fienile era chiuso a chiave e l'uomo, assieme ad un amico, dovette faticare parecchio per entrarvi: vi trovò il figlio con ancora un pezzo di pane in mano.

Su questo fatto nacque la tradizione di distribuire a chi lo richiede dei piccoli pani con l'impronta della Madonna dell'Erbia che poi vengono consumati da chi è malato. Nel 1867, dopo lo scoppio violento di un'epidemia di vaiolo, si fece voto di ampliare la chiesa e fu così che il piccolo tempio venne trasformato in Santuario tra il 1877 ed il 1881 e questi ulteriormente ingrandito negli anni 1927-28.

Nel 1873 il vescovo di Bergamo, mons. Pierluigi Speranza, ordinò un’indagine sui fatti, che si concluse il 12 ottobre dello stesso anno con un documento che certificava il prodigio. I casnighesi sono molto devoti alla Madonna d’Erbia ed al Santuario sono moltissimi gli ex-voto.

UN PARTICOLARE
La chiesa custodisce anche un prezioso ricordo: la veste talare indossata da Papa Giovanni Paolo II pochi giorni prima della sua morte, donata ai coniugi casnighesi Mario Franchina ed Emma Torri che avevano stretto amicizia con il Papa a Castelgandolfo.

Nel 2005, all’indomani della morte di Papa Karol Wojtyla, oggi San Giovanni Paolo II, fu ancora la devozione dei casnighesi a portare al Santuario una preziosa reliquia. I coniugi Mario Franchina (morto nel 2010) ed Emma Torri avevano infatti stretto amicizia con il Santo Padre sin dal 1979, durante i suoi soggiorni a Castelgandolfo. Loro (lui casnighese, lei di Gandino) da emigranti dell’industria tessile vivevano nella vicina Aprilia e al Papa portavano frutta e verdura dei loro campi. Un’amicizia semplice e straordinaria protrattasi per oltre 25 anni, sancita, all’indomani della morte del Papa (il 2 aprile 2005) dal dono della Veste per mano di monsignor Stanislao Dziwisz, oggi arcivescovo di Cracovia. Non vi furono dubbi: essa doveva essere esposta al Santuario della Madonna d’Erbia, di cui i coniugi Franchina avevano parlato al Papa polacco.

LA STORIA

Da sempre la gente di Casnigo implora la Madonna d’Erbia, come nel 1867, quando in Val Seriana vi fu un’epidemia di colera. I casnighesi fecero voto di ampliamento del Santuario e i lavori iniziarono nel 1878. Per avere un’idea di quanto forte sia il legame di devozione per la gente della Valle, è sufficiente dare un’occhiata alle centinaia di ex voto raccolti alla Madonna d’Erbia, con scene legate alla malattia e alla vita quotidiana, utili per raccontare una storia popolare di usi, costumi e situazioni che spesso sfugge al rigore dei documenti d’archivio.

La  data di fondazione della chiesa non è certa, differentemente dai motivi che spinsero la sua edificazione. Infatti gli storici del seicento e del settecento non parlarono mai dell'esistenza di chiesa o santuario, ma essi riferirono solo di un'immagine miracolosa che si venerava in località Erbia. Solo verso la fine del Settecento o sul principio dell'Ottocento si eresse una piccola chiesetta, in cui venne incorporato il muro del fienile riportante la venerata immagine, che fu così sottratta alle intemperie e convenientemente difesa

IL SANTUARIO

La facciata principale della chiesa è preceduto da un portico aperto su due lati con archi a tutto sesto poggianti su colonne in marmo di Zandobbio in stile toscano, impostate su muro continuo interrotto solo in corrispondenza dell'ingresso principale che funge da basamento.

Sotto il porticato vi è posto centralmente l'ingresso principale con dritti ed architrave in pietra. Ai lati di quest'ultimo in corrispondenza delle ultime aperture del porticato vi sono due finestre con inferriate di sicurezza e contorno simile all'ingresso. Sopra il porticato la facciata continua liscia e ripartita verticalmente da due lesene in tre settori. I settori laterali, più bassi di quello centrale, presentano due nicchie, una per lato, nelle quali sono contenute le statue dei Santi Pietro e Paolo. Questi settori sono terminati da cornicione con timpano spezzato interrotto per tutta la larghezza del settore centrale. Quest'ultimo ospita una grande finestra semicircolare posta immediatamente sopra alla copertura del porticato ornata da ampio contorno in pietra modanata e da inferriata. Sopra, all'altezza dei timpani laterali, si trova un basso rilievo di angeli che sostengono una cartiglia e sopra ancora vi è il timpano che corona la facciata. Internamente la chiesa è composta da tre navate ripartite in quattro campate. Ai lati del presbiterio, largo quanto la campata centrale, vi sono due cappelle: in una, comunicante con il presbiterio, si conserva il SS. Sacramento; in quella opposta, che funge da vestibolo alla sagrestia e da penitenzieria, si custodiscono alcuni ex voto. Il presbiterio, corrispondente alla primitiva chiesa settecentesca, è a pianta rettangolare ed è rialzato di poco rispetto alle navate e protetto da inferriata.

L'interno della chiesa è in stile barocco a croce latina sormontato da una cupola a forma di coppa rovesciata affrescata da Ponziano Loverini nel 1879.L'aula è arredata anche di dipinti ex voto.

Vi sono quattro cappelle e due cappelloni laterali:

La prima cappella di sinistra con l'altare in marmi policromi è dedicata a san Lorenzo, ospita una statua in legno policromo risalente alla fine del XVI secolo e raffigurante il santo e un tabernacolo marmoreo barocco attribuito alla Bottega di Bartolomeo Manni di Gazzaniga.

La seconda cappella sinistra con l'altare in marmo rosa è dedicata a santa Caterina d'Alessandria con la pala d'altare della fine del XIX secolo raffigurante il martirio della santa.

La prima cappella di destra è dedicata al rosario; vi sono tre statue Seicentesche in legno policromo raffiguranti san Domenico, santa Caterina da Siena e una Madonna vestita.

La seconda cappella destra è dedicata al crocifisso, vi è una preziosa croce in oro e argento sbalzato con incastonate pietre preziose.

Sul cappellone di destra c'è un'arca funeraria in ebano e foglia d'oro che ospita i resti dell'arciprete Donadoni devoto alla Madonna e l'altare delle reliquie in bronzo e argento sbalzato con nella tribuna espositoria la cosiddetta "testa di sant'Agnese". Il soffitto è decorato con stucchi di Enrico Albrici e affreschi di autore ignoto.

Il cappellone di sinistra è munito di pulpito, ancora usato nelle solennità, e diversi affreschi di Ponziano Loverini raffiguranti le vicende del miracolo della Madonna in Erbia.

Altare maggiore

L’altare maggiore è realizzato in bronzo e legno di noce con il dipinto ritenuto miracoloso conservato in una cornice di legno dorato con due angeli che tengono nella mano una corona d’oro zecchino. L’altare è diviso dalla navata con una cancellata in rame e oro donata dai casnighesi.

Santuario della SS Trinità di Casnigo- Via Santissima Trinità, 9, 24020 Casnigo BG

A 25 km da Bergamo, ad un’altezza di circa 690 metri, in posizione dominante l’altipiano di Casnigo e la Valle Seriana, sorge il Santuario della SS. Trinità. Il corpo più antico, antecedente la data del 1491, oggi inglobato nel portico antistante l’entrata della chiesa, era una semplice cappelletta dotata di altare in muratura. Il  luogo pare fosse abitato fin da tempi molto remoti, come testimoniato dal ritrovamento di reperti preistorici.

Il Santuario della SS.Trinità a Casnigo è uno scrigno che cela tesori artistici di grande suggestione. Da queste parti ricordano con orgoglio l’appellativo di “Sistina della Bergamasca” attribuito negli anni alla chiesa romano-gotica. La ragione è d’immediata comprensione non appena si accede al Santuario dall’antico portichetto che domina la Valle, quando appaiono gli affreschi del Giudizio Universale dei pittori Baschenis             ( La famiglia Baschenis, originaria della Valle Averara - e più precisamente dalla frazione di Colla nel comune di Santa Brigida, costituisce un interessante esempio di bottega di frescanti che, a partire dalla metà del XV secolo, si tramandarono per secoli di padre in figlio il loro mestiere)  , che caratterizzano l’arco trionfale ed il presbiterio.

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Santuario era sicuramente frequentato nel Medioevo, come confermato dai resti di una torre di guardia individuabili nel muro di sostegno del terrapieno del sagrato. Un affresco raffigurante la Madonna riporta la data del 1491, mentre nel 1523 Papa Paolo III approvò con bolla pontificia la locale Confraternita della Ss.Trinitàche, in occasione della visita di San Carlo Borromeo del 1575, contava ben 500 confratelli.

La Ss. Trinità di Casnigo conserva lo splendido polittico dell’altare maggiore, opera di Giovanni Marinoni, realizzato fra la fine del ‘400 e i primi del ‘500. E’ una delle opere più pregevoli presenti nel santuario. È probabilmente opera di Giovanni Marinoni e del figlio Antonio.

Il polittico dei Marinoni è posto su un altare settecentesco del presbiterio della Chiesa, anche se non ha sempre avuto questa collocazione. La Chiesa della Trinità fu probabilmente edificata nella seconda metà del XV secolo come risulterebbe dai molti ex voto datati dal 1491 al 1518. L'affresco della la Trinità con i santi Lucia, Defendente e Caterina d'Alessandria è datato 1511; al  medesimo periodo risalirebbe il polittico con una datazione presumibilmente di poco precedente il 1511, quindi eseguito sicuramente a più mani dai pittori della famiglia di Desenzano al Serio

Dotato di una cornice finemente intagliata e decorata Il polittico si divide in tre parti poste su due registri. Nello scomparto centrale inferiore abbiamo l’immagine della S.S. Trinità con Dio Padre che sorregge a braccia aperte il Cristo crocifisso, nei due scomparti laterali, a figura intera, a sinistra San Pietro Martire e, a destra San Defendente. La santissima Trinità è presentata nella classica rappresentazione detta Trono di Grazia, con la raffigurazione di Dio che regge Cristo in croce, tra loro la nivea columba,l’ immagine doveva avvicinare il fedele al dogma di Dio uno e trino.

Da non dimenticare Il  gruppo scultoreo in terracotta policroma dedicato ai Re Magi che , collocato in un locale esterno all'aula quattrocentesca, può essere visto attraverso una larga finestra con inferriata che si apre sul lato nord dell'aula stessa. Uno di loro è rappresentato con ampie vesti e carnagione di colore, al punto che la tradizione popolare tramanda la leggenda della “Re Magia Nigra”, al femminile, additata come spauracchio ai bambini troppo vivaci. Meno nota, ma di grande rilievo, la presenza nel Santuario, in un’apposita teca in legno a forma di croce, delle reliquie dei Magi.

Ancora oggi la notte dell'Epifania parte dal santuario una processione che si dirige in paese a portare i doni ai bambini. Infatti da qui discende una particolare leggenda e l’originale celebrazione che si ripete il 5 gennaio di ogni anno.

Il corteo con i i sapienti d'Oriente, pastori e pecorelle si mette in  cammino dal santuario fino al paese per portare i doni ai bambini. Una tradizione antica, la rievocazione si ripete da 500 anni: il corteo scende dalla montagna e raggiunge prima l'ex chiesa di Santo Spirito, dove viene messo in scena l’incontro con Erode; poi la chiesa arcipresbiterale con l’omaggio alla Natività.

La data di riferimento per le celebrazioni centenarie è quella del 1612, quando fu realizzato il protiro di accesso, con colonne in pietra arenaria. Di particolare pregio anche il coro ligneo in noce della fine del ‘600 cui ha quasi certamente lavorato Ignazio Hillipront  (1673-1748), scultore nativo del Tirolo) , autore in paese della Sacrestia della parrocchiale di San Giovanni Battista.

Il Giudizio Universale è senza dubbio l’opera di maggiore impatto, per dimensioni e fattura. Occupa ben 39 metri quadrati, con centinaia di figure allegoriche. E’ stato attribuito di recente alla mano di Cristoforo Baschenis il Vecchio, grazie al confronto con un’ opera firmata, datata 1576, avente lo stesso soggetto, presente nella chiesa della SS. Trinità di Urgnano. Il grande affresco è suddiviso in due sezioni. In quella inferiore è raffigurato il momento della resurrezione dei corpi con la pesatura delle anime ad opera dell’arcangelo Michele. I buoni vanno verso l’alto, cioè verso il Paradiso, dove li attendono la SS. Trinità, la Madonna ed una schiera di santi, mentre gli altri si avviano curvi verso l’Inferno. Qui, ad attenderli vi è una bocca mostruosa che li ingoia. Fra i dannati compaiono distintamente vescovi e papi: il primo dannato che il mostro ingoia è un vescovo, che la consolidata tradizione popolare ha sempre indicato come il vescovo di Bergamo, seguito immediatamente dall’arciprete di Casnigo, persone con i quali la Confraternita in quel momento non aveva buoni rapporti. Al pennello di Cristoforo Baschenis il Vecchio, all’interno del Santuario, sono attribuiti anche gli affreschi della volta del presbiterio e le figure dei dodici profeti nel sottarco dello stesso. Tutti furono realizzati tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento. Con Cristoforo il Vecchio (già defunto nel 1596) collaborò a bottega anche il nipote omonimo Cristoforo (il Giovane), che probabilmente partecipò, sotto la direzione dello zio, alla realizzazione degli affreschi. Lavorò alla Ss.Trinità di Casnigo anche l’ultimo esponente della dinastia brembana, Pietro Baschenis, morto di peste nel 1630. Riferibili alla sua mano sono le grottesche e i festoni su fondo bianco delle vele della volta del portichetto, che richiamano quelle dello stesso autore nel palazzo della Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo.       

Basilica di Santa Maria Assunta- Piazza della Emancipazione, 1, 24024 Gandino BG

Capoluogo dell’omonima valle, Gandino sorge in un’ampia conca, che per circa 10 secoli è stata la culla di una fiorente comunità mercantile.

La grande piazza Emancipazione è il cuore della comunità poiché non solo è il luogo dove, davanti alla cittadinanza convocata venne firmato l’atto di emancipazione dalla servitù feudale (1233), ma anche perché è il centro della vita religiosa ed artistica. Su questa piazza sorge la splendida basilica dedicata a Maria Assunta, fulcro ed apice di molteplici testimonianze d’arte.

La Basilica di Santa Maria Assunta è uno dei monumenti più significativi e originali non solo della terra di Bergamo, ma di tutta la Lombardia . Si tratta di un organismo che ha subito profonde trasformazioni nel tempo; sorge sull’antica chiesa del Duecento, riedificata nel 1421 e successivamente ampliata nel 1469 fino a definirsi come nuova e originalissima opera architettonica, dove gli stili si fondono in una unità compositiva. La trasformazione radicale dell’edificio antico, che in parte si fonde con il nuovo, inizia nel 1623 e termina nel 1640 con la costruzione della stupefacente cupola centrale alla chiesa e che si appoggia lateralmente sui murature d’ambito e sui quattro poderosi pilastri polilobati realizzati con pietra locale. Si tratta di una soluzione a pianta combinata dove il segno longitudinale e trasversale trovano una sintesi felice.

Un simbolo efficace dell’aspirazione a perpetuare nel tempo le proprie ambizioni e a celebrare pubblicamente i fasti familiari si coglie nel motto “DIRIGE ET ERIGE” affrescato proprio sulla volta della basilica sopra lo stemma dei Giovanelli, mecenati illuminati e certamente benemeriti.

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GANDINESI MERCANTI

Fu soprattutto tra il XV e il XVI secolo che fiorì l’attività laniera che contribuì ad accrescere il prestigio e la ricchezza degli abitanti di Gandino . Antiche famiglie laniere furono oltre ai Giovanelli, i Del Negro, Sizzi, Castello, Caccia, Scarpa, Rizzoni, Testa, Radici, Maccari, Ongaro, che accumularono ingenti patrimoni grazie al commercio mitteleuropeo. Al ritorno dai loro viaggi i mercanti erano soliti portare alla chiesa doni di particolare valore come segno di ringraziamento e come riconoscenza per essere stati risparmiati dai pericoli dei briganti e dalle pestilenze.

L’attività  mercantile si sviluppava dalle propagini italiane fino ai regni nordici della Polonia e delle Fiandre

L’esercizio della mercatura dei pannilana locali venduti ,appunto,  in mezza Europa e la conseguente frequentazione di ambiti culturalmente evoluti consentono ai Giovanelli, come ad altre famiglie di imprenditori gandinesi l’acquisizione , oltre che di ingenti patrimoni, di un habitus intellettuale che affina sensibilità e diponibilità nei confronti dell’arte e degli artisti.

Così si spiega come il fonditore dalmata Francesco Antizza da Lagosta crei nel 1590 la preziosa balaustra in bronzo di Corinto dell’altare maggiore o come dalle Fiandre arrivino nel 1580 gli splendidi arazzi con  gli episodi della vita della  Vergine nonché l’altare d’argento proveniente da Ausburg nel 1675. Gli undici altari poi documentano, nella profusione di marmi pregiati ( su tutti il nero di Orezzo) e nella qualità delle pale la munificenza di casati e confraternite e, ancora una volta l’ampiezza dei rapporti col mondo dell’arte.  Pale provengono dall’area toscana ed emiliana ( Vincenzo Dandini e Simone Cantarini): la presenza del Cantarini ( pesarese) trova spiegazione nel fatto che la famiglia Giovanelli teneva possedimenti e relazioni commerciali ad Ancona e Fano ; i contatti con  Vincenzo Dandini si devono al fatto che i gandinesi pur  non avendo  rapporti con l’area fiorentina, ma fu  Giovanni Antonio Ciranello da Cirano  ( frazione di Gandino) a far da tramite con la Toscana.  La pala della “Circoncisione”si deve  alla mano di Pietro Mango, napoletano , pittore ducale a Mantova. Da Crema Gian Giacomo Barbello manda la “Consegna delle chiavi a San Pietro” e il cremonese Manfredini il “ Sant’Antonio”.

Anche l’area tedesca , assai frequentata dai mercanti gandinesi , è ampiamente rappresentata:  lo svizzero Cristoforo Storer firma la tela dell’altare della Natività, Giovanni Schmidel di Norimberga , intorno al 1645, decora l’altare dei santi protettori con tre statue in rame sbalzato; più tardi a Bernardo Luca Sanz di Passau fu commissionata la Deposizione per l’altare della misericordia.

Un eccezionale manufatto, di provenienza tedesca è poi il Crocefisso ligneo , parte degli arredi dell’antica chiesa quattrocentesca, recentemente attribuito al Maestro di Heiligenblut, nome convenzionale di un intagliatore attivo in Tirolo e in Carinzia, chiamato così dal nome del santuario di Heiligenblut in Carinzia. La scultura (che reca un cartiglio sul capocroce con iscrizione in aramaico in latino con caratteri capitali e in latino con caratteri gotici) presenta una peculiarità: sotto le ascelle sono posizionati due perni che consentono di richiudere al corpo le braccia di Cristo: indica l’uso liturgico che veniva fatto dell’opera, con tutta probabilità utilizzata nei riti della Settimana Santa per emulare la deposizione del Salvatore.

L’ambito veneto è certamente il più rappresentato. Strette erano le relazioni politiche e commerciali con Venezia, dal cui governo Gandino riceveva garanzie ,per le sue autonomie, e privilegi . Nella città lagunare numerosi mercanti gandinesi avevano possedimenti ed affari.

Il primo ad essere ingaggiato fu il veneziano Giovan Battista Lambranzi chiamato dai baroni Giovanelli ad affrescare la grande cupola e due campate contigue ; notevoli le tele dei veronesi : di Antonio Balestra il Riposo nella fuga in Egitto del 1715, l’anno successivo il suo maestro Santo Prunati realizza l’Adorazione dei Magi e nel 1718 Paolo Zimengoli consegnalo scenografico Diluvio Universale, una delle più grandi tele in Lombardia.

Ma è di particolare interesse l’”Assunta di Alvise Benfatti , veneziano ( ora al Museo) .

Il dipinto raffigura l’episodio dell’Assunzione della Vergine cui la Basilica è dedicata.

La tela, organizzata su due livelli, propone in basso un gruppo di apostoli raccolti intorno al sepolcro vuoto estasiati per l’Assunzione di Maria.  La cesura tra cielo e terra è ben delimitata da due ordini di vaporose nubi su cui si erge l’immagine di Maria . La Vergine ascende al cielo sostenuta da due angeli e da numerosi cherubini. Ancora :attorno a Maria sei angeli che dai lati le porgono rami di palma  e ghirlande. Una corona di cherubini chiude in alto la tela seguendo la forma della centina ( la fastosa ancona in cui era inserita,  fino al momento dell’ingresso nella nelle collezioni del museo nel 1924,  è opera di Andrea Fantoni e bottega e risale al 1700) . Inevitabile, coi dovuti distinguo, il richiamo alla Assunta di Tiziano  della Basilica dei Frari a Venezia.

Certo il confronto con la pala di Tiziano è penalizzante: il colorito è più denso , “versione appesantita di quello veronesiano” ( Olivari) , ma le fisionomie ben individualizzate degli apostoli convincono e se rimane il netto divario qualitativo , “lo spirito religioso è lo stesso , se non più condiviso e sincero” (Pagnoni)

La tela è firmata in corrispondenza del sarcofago: si tratta , forse, di uno degli ultimi dipinti realizzati da Alvise Benfatto morto il 7 ottobre del 1609.

L’opera risulta essere stata commissionata, o comunque pagata, al Frisio proprio nel 1609, da Giuseppe Negri ( indicato anche come  Del Negro) : il pagamento del dipinto è conservato nell’archivio parrocchiale.  A fronte di ciò condividiamo quanto già sostenuto da altri: la data di commissione dell’opera dovrebbe essere anticipata al 1603.

Alvise Benfatti detto dal Frisio fu nipote di Veronese;   tra gli allievi dello studio veronesiano, in un  primo elenco compare come  “Alvise de Paulo Veronese”,  in un periodo di tempo compreso fra il 1584 e il 1597 in un  secondo è segnalato come “Alvise Benfatto”, sempre a partire dal 1584 ma fino al 1608.

Per  la sua  biografia si deve ancora fare riferimento alle notizie tratte dalle fonti secondarie che lo vogliono figlio di una sorella di Paolo. Alvise poteva avere una propria bottega indipendente in quanto iscritto alla Fraglia già dal 1584.  Ridolfi riferisce che il suo apprendistato avvenne nella stretta osservanza dei precetti del maestro; tanto da raccontare, per l'ennesima volta ricorrendo a consolidata aneddotica, che quest'ultimo era costretto a nascondere le sue opere per non subire danno a causa delle imitazioni del nipote. Inoltre egli narra che Alvise si stabilì a lungo nella casa dello zio, ma non è dato sapere precisamente per quanto tempo e a quale titolo: probabilmente vuol farci intendere che, una volta emancipato, Alvise era spesso in casa Caliari per svolgere un rapporto di collaborazione con Paolo e con gli Eredi, dal novero dei quali sarà  però escluso. La fama di imitatore delle opere del capobottega accompagna la personalità artistica di Alvise Benfatto del Friso sin dall'epoca di Ridolfi. La critica moderna generalmente ritiene che le copie contemporanee degli autografi di Paolo siano di mano di questo pittore che aspirava a riprodurre non solo alcune iconografie del maestro, pur con qualche minimo scarto nei dettagli, ma anche il suo stile.

Nel nostro caso il pittore tenta di elaborare uno spazio scenico indipendente dal modello veronesiano, ela scelta risulta , a nostro avviso,  congruente ed efficace.

Nessuno ha mai collegato questa con una delle  opere ( ora Venezia, Ateneo Veneto di Scienze, Lettere ed Arti , Sala di Lettura  )   che dopo il 1913, vennero raccolte appunto  nella Sala della Lettura dell’Ateneo  (si trovavano in origine nella Sagrestia vecchia a piano terra erano poi passate dal 1664, all’Albergo piccolo) : esse  raffigurano  le Storie della Vergine e che.

La storiografia artistica non ha mai assunto  una posizione precisa né, per la verità, ha preso  in grande considerazione queste opere. Lo Zanetti assegna tutte le tele al del Friso, affermando che sono toccate molto bene sul gusto di Paolo. Ma ecco che nel 1786, nonostante questi illustri precedenti, in un inventario della Scuola, la paternità del Ciclo viene ad assumere altri valori. Infatti al Luigi Benfatto cioè al del Friso, viene qui assegnato un solo dipinto e cioè il Battesimo di Gesù, mentre l’Adorazione dei Magi, l’Assunta, la Disputa fra i Dottori, la Fuga in Egitto, la Presentazione al Tempio e il Transito di Maria vi sono indicate come opere di Paolo Veronese

L’Assunzione è  forse il dipinto più noto del Ciclo. Per il quale anche il Lorenzetti ha avanzato il nome di Paolo Veronese. Si tratta indubbiamente di un’opera estremamente felice per l’impeto e il movimento. Ancora una volta il colore di Paolo s’afferma per la luminosità, con improvvise e quasi magiche modulazioni di toni. Si noti il ritmo degli Apostoli ruotanti attorno al sepolcro vuoto, il senso del movimento che distingue la Vergine tra i putti.

Credo sia indiscutibile il tentativo del Benfatti di unire idealmente nella pala di Gandino  l’Assunta di Tiziano e quella di Vernese dalla quale chiaramente mutua alcune fisionomie dei santi nonché parte della scenografia ( il sepolcro attorno a cui si raccolgono gli apostoli, gli angeli che sostengono  la Vergine).

Purtroppo la tela è come dicevamo stata rimossa dalla Basilica di Gandino  e inserita nella collezione del museo nel 1924 quando fu sostituta dall’attuale pala , opera di Ponziano Loverini.

La  basilica di Gandino , nel suo insieme, acquisisce e rielabora forme espressive di altre regioni: vi è un colorismo di area veneta, un rimando all’architettura lombarda, nonché  alle esperienze mitteluropee con la soluzione della cuspide del campanile a cipolla rivestita di rame nel 1677 da maestranze di Bolzano e Merano. Con l’esplosione del barocco nel 1600  si diffonde, soprattutto in Austria e Germania ma anche in Trentino Alto Adige,  questo gusto (mutuato dalle chiese ortodosse come San Basilio a Mosca) di ornare la sommità dei campanili con una cupola a forma di cipolla che ricorda la fiamma di una candela che  si riferisce alle parole di Cristo: “Voi siete la luce del mondo”.

Si tratta di un caso raro in bergamasca ( con poche  eccezioni, tra cui,  in Valseriana : Rovetta ove la Chiesa Parrocchiale dedicata a Tutti i Santi  presenta un  maestoso campanile costruito tra il 1672 ed il 1696 su progetto di Andrea Fantoni che termina con una cupola a cipolla; lo stesso vale per il Santuario della SS. Trinità in Casnigo, il campanile è coevo all’ultimo ampiamento della Chiesa ).

Impossibile non notare il campanile di Gandino :  svetta, alto 74 metri con quella cupola a cipolla, di derivazione, come dicevamo,  mitteleuropea, dotata di una cuspide in rame alta 13 metri. Venne eseguito dal bolzanino Francesco Shgraffer e dal trentino Paolo Sterzl. Il campanile possiede inoltre un concerto di 10 campane datate dal 1706 al 1822.

Gli elementi architettonici di maggiore rilievo della basilica sono, come dicevamo : la grande cupola ottagonale, scavata da otto arconi, affrescata con architetture illusionistiche dal veneziano Giovan Battista  Lambranzi che tendono a smaterializzare le forme del grande catino ottagonale rafforzando il senso di calotta semisferica. “Piazza coperta”, come amava definirla, il vescovo Bernareggi.

Vale la penna sottolineare inoltre  che la Basilica propone una pianta combinata , dove la cupola dilata lo spazio riservato ai fedeli , rompendo il segno delle navate, ma rafforza contemporaneamente la concezione longitudinale, mediante l’adozione della copertura a botte che, partendo dalla parete di fondo , e interrotta dalla cupola, prosegue fino a concludersi a est del presbiterio .

La soluzione è lontana dal concetto di edificio sacro caro a San Carlo che, in armonia con la tradizione, privilegiava le chiese a croce latina. Il Cardinale riteneva infatti pianta centrale più vicina al mondo pagano . Ma un importante modello architettonico  si può certo e , forse incredibilmente , trovare in Santa Sofia a Costantinopoli e questo sia per la cupola , ugualmente priva di tamburo, che sembra “sospesa dal cielo con una catena d’oro” sia per il fatto che entrambe gli edifici  combinano  lo schema della pianta centrale con quello longitudinale .

Santa Sofia del resto, un gioiello di raro successo architettonico nella storia antica, il primo capolavoro dell'architettura bizantina, ha influenzato nel tempo il mondo ortodosso, cattolico e musulmano.

All’origine di entrambe troviamo ,  senza dubbio,   l’architettura paleocristiana con edifici a pianta centrale, circolare o ottagonale, quasi sempre coperti a cupola.

 

L’interno

Espressione di uomini profondamente cristiani, voluta da una società economicamente sviluppata,  status simbol di mercanti che avevano rapporti commerciali con tutta Europa, la Basilica esprime tutti questi significati nella sontuosità e ricchezza dell’interno.

Tra gli elementi di maggior rilievo  : i maestosi  altari per i quali furono utilizzati marmi selezionati e preziosi e  le casse dei due organi che decorano le pareti laterali del presbiterio: quello a sinistra Adeodato Bossi-Urbani del 1858 e quello di destra di Giacinto Pescetti del 1720  . La Basilica di Gandino è una delle pochissime chiese in Italia a possedere due monumentali organi distinti.

Il gusto barocco, moderato in tutta la chiesa, trova sfoggio le fronti esterne (mostre d’organo) :putti, angioletti, cariatidi , telamoni e statue, centoventisei in tutto, si intrecciano con strumenti musicali. Le due cantorie e la mostra d’ organo di sinistra  ( relizzate tra il 1693 e il 1708) , l’altra mostra,  del 1720,  è del tedesco  Ignazio Hillepront.

Ritroviamo  il prodigioso scalpello di Andrea Fantoni , unitamente al genio architettonico di  Giovan Battista Caniana, nei 4 confessionali realizzati tra il 1721 e il 1724.

Anche l’altare maggiore, in marmo policromo intarsiato , è dominato dalla superba ancona marmorea con colonne tortili dei Fantoni di Rovetta; ad Andrea Fantoni si devono le cinque statue di legno laccato bianco che dominano il fastigio , ispirate alla simbologia mariana.

L’esterno è un gioco di volumi finiti con ceppo locale scabro ed evidenziati nella loro forma geometrica da lesene e bordi di pietra bianca.  Su tutto domina il grande tiburio.

Pur realizzato in un arco di tempo relativamente lungo, tra il 1624  e il 1657, anno in cui furono terminate le opere murarie del campanile, l’involucro esterno presenta una grande coerenza di disegno , che molto dice della sensibilità delle maestranze.

Altra peculiarità: la costruzione, altro caso raro in bergamasca e non solo,  si pone come elemento forte e soprattutto autonomo , isolato dagli altri edifici che la circondano , poggiato sull’ampio basamento del sagrato.

Il portale principale disegnato da Domenico Rossi nel 1712 ed eseguito dal veneziano Antonio Cavalieri,  fu donato da Girolamo Castello  esponente di una nobile famiglia del paese. Le statue del fastigio , in pietra di Rovigno  furono eseguite da Paolo Callolo a Venezia dove furono trasportate per via fluviale fino a Palazzolo e da lì con carri fino a Gandino.

Il portale con la sua maestosità annuncia la bellezza del tempio, monumento all’Assunta: la bianca statua della Vergine, che domina il timpano, attorniata da angeli e protesa verso il cielo, ricorda al pellegrino che in quella chiesa tutto parla di Dio  e, come è stato scritto,” la sua bellezza non è altro che prefigurazione del Paradiso”.

Casa madre Suore Orsoline Via del Castello, 19, 24024 Gandino BG: luogo di ospitale accoglienza

l monastero benedettino di S. Carlo a Gandino (Bergamo) fu fondato il 16 ottobre 1610, anno della canonizzazione del cardinale Carlo Borromeo, il santo arcivescovo di Milano che era rimasto nella memoria dei gandinesi per la sua visita apostolica alla parrocchia nel novembre del 1575. Una ducale veneta del 16 ottobre 1610 concedeva il permesso «alla terra di Gandino di poter in essa edificar un Monastero di Monache ad accrescimento del culto di Dio, e commodità di molte povere figlie di quel luogo». La costruzione del grande edifi cio iniziò probabilmente subito, ma si protrasse per vari anni. Il 23 marzo 1616, il vescovo di Bergamo Giovanni Emo inviò una relazione alla S. Congregazione dei Regolari, nella quale scrisse che «la fabbrica è ridotta a termine tale che i muratori non havranno da entrare nel monastero, se altro non accade.

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La chiesa è compitamente finita. L’altare è tenuto, ornato e uffitiato con molta decenza, havendo croci, tovaglie, palii et altre cose necessarie copiosamente… Le muraglie del monasterio a torno sono alte, forti e ben fondate; non è dominato da alcuna fabrica vicina… Si è fatto un appartamento separato per l’educande».

 

Dalla lettera del Vescovo si conoscono anche altri particolari: la chiesa del monastero era dedicata a S. Carlo Borromeo; la regola adottata era quella di S. Benedetto; il monastero aveva una rendita di 300 scudi annui, sufficiente per 13 monache, e l’abitazione poteva ospitare 25-30 religiose. La lettera del vescovo si conclude con la richiesta di poter espletare le formalità necessarie a rendere il monastero operante a tutti gli effetti: «… attendono adesso con molto desiderio la gratia della S. Congregatione della clausura di dare alle sudette nove figliole [presenti nel monastero e in attesa di potersi consacrare a Dio] l’habito, nel quale sono risolute di servire Dio, la facoltà di pigliare zitelle secolari ed educarle, et di levare da uno o più monasteri della regola di S. Benedetto in questa città e diocesi… quattro monache, due per il governo delle nove sudette et altre due per l’educatione».

 

La fondazione venne ufficializzata l’anno dopo, il 10 marzo 1617, da un «breve» di Paolo V, ma l’inizio ufficiale della vita monastica benedettina porta la data del 27 ottobre 1622: «Fabricato il nuovo Monastero per le Monache di S. Carlo di Gandino, ch’esser dovevano dell’ordine di S. Benedetto, e già allestite le prime vergini, che volevano il santo instituto abbracciare, hoggi da Bergamo levate fuori del monastero di S. Benedetto le madri Donna Vittoria Beroa, D. Theodora, e D. Girolama Cacciani vi si condussero perché fossero di quel nuovo Monastero le fondatrici, e di tutte le altre direttrici e Maestre. Così, dato principio a quel Venerando Collegio de Vergini, che con ogni spirito, e religione va nel culto di Dio perseverando».

 

“Celebrare vuol dire avere un passato che rivive nel presente per animare di speranza il futuro”. Con queste parole le Suore Orsoline di Maria Vergine Immacolata di Gandino annunciavano nel dicembre 2008 le celebrazioni per il 150° anniversario del riconoscimento dell’Istituto. Ad un anno di distanza l’auspicio ha trovato compimento in un’ importante realizzazione: un Museo Antologico ospitato nel Convento di Gandino, inaugurato domenica 3 gennaio 2010.

Nelle ampie sale collocate sopra la portineria di via Castello sono ricostruiti due secoli di storia dell’Istituto delle Orsoline, fondato a Gandino il 3 dicembre 1818 da Don Francesco Della Madonna. Il 19 luglio 1858 il Vescovo di Bergamo mons. Pietro Luigi Speranza emise di decreto di approvazione canonica della “Congregazione di Orsoline sotto la protezione della Beata Vergine Maria concepita senza macchia originale” nominando Superiora madre Maria Bona Rovelli. Il Vescovo Speranza si recò a Gandino il successivo 26 luglio per la professione religiosa di diciannove Orsoline, tre delle quali già presenti alla fondazione nel 1818.

Venne soppresso nel 1810, in applicazione dei decreti napoleonici. Come si legge nel verbale di soppressione, il 21 maggio il Delegato governativo convocò le 34 monache nella stanza adiacente alla chiesa (il comunicatorio) e comunicò loro il decreto di soppressione: entro 50 giorni dovevano lasciare il monastero e portare con sé solo gli effetti strettamente personali; sarebbe stata loro assegnata una pensione annua. Le monache che non volevano ridursi allo stato laicale, potevano trasferirsi in uno dei monasteri in cui venivano concentrate religiose di diversi Ordini soppressi. Tutti i mobili e gli oggetti del monastero furono inventariati e venduti all’asta nel settembre del 1810. L’edificio passò dapprima al demanio e successivamente in proprietà di privati fino al 1880, anno in cui fu acquistato dalle suore Orsoline. Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, l’istituto ebbe un discreto incremento numerico di suore e di comunità in Valle Seriana, nel capoluogo e nella pianura bergamasca, soprattutto con l’istituzione delle nuove scuole per l’infanzia nelle parrocchie.

Particolarmente suggestivo il contesto delle Cantine del Convento, ora visitabili e recuperate. Si tratta di un dedalo per certi versi ancora sconosciuto, che occupa una porzione significativa della struttura conventuale, quasi paritaria a quella di superficie. Un tempo in queste sale si conservavano le derrate alimentari del Convento e addirittura veniva pigiata l’uva e prodotto il vino.