Alta Via delle Grazie

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Arte & Cultura

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TAPPA 1: BERGAMO - SELVINO

Chiesa/Santuario S. Maria delle Grazie - Viale Papa Giovanni XXIII, 13, 24121 Bergamo BG

Siamo a  Bergamo sul viale Papa Giovanni XXIII, in prossimità dei propilei.  Arrivando dalla stazione ferroviaria è il primo luogo di culto che si incontra in città. È la parrocchia del centro città, inteso quello il cui baricentro è Porta Nuova, e che quindi connette l’abitato urbano con quello extraurbano, così come il centro storico antico (Città Alta) con quello moderno (Via XX e Quadriportico del Sentierone), proprio come un doppio cordone ombelicale. Eppure la vediamo ogni giorno distrattamente: la sua entità si perde un poco nella cortina degli edifici a lato, nella sfilza dei negozi che sfilano lungo il lato di viale Papa Giovanni su cui si trovano anche gli accessi al chiostro, all’oratorio e al Teatro delle Grazie, che spesso prevaricano rispetto alla sua essenza di chiesa.

L’edificio è ricco di storia: è stato fondato nel 1422 da San Bernardino come convento francescano.

Partiamo da qui:era allora vescovo di Bergamo Francesco Ragazzi da Cremona , aveva solo 28 anni quando ricevette questo incarico, nel 1403 fino al 10 agosto del 1437 . Nel 1422 Pietro Ondei d’Alzano donò a San Bernardino  da Siena quest’area sulla quale venne edificata con annesso monastero la Chiesa di Santa maria delle Grazie

Sul muro esterno del convento S. Bernardino fece affrescare l’immagine del Cristo in atto di cadere sotto il peso della Croce. La sera del  30 aprile 1544  l’immagine fu vista da vari testimoni sudare sangue dalla fronte. Il  5 aprile 1575  il Cristo dipinto di nuovo sudò prodigiosamente sangue e S. Carlo Borromeo, che stava visitando la nostra Diocesi, sancì la genuinità del miracolo. 

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Sul muro esterno del convento S. Bernardino fece affrescare l’immagine del Cristo in atto di cadere sotto il peso della Croce. La sera del  30 aprile 1544  l’immagine fu vista da vari testimoni sudare sangue dalla fronte. Il  5 aprile 1575  il Cristo dipinto di nuovo sudò prodigiosamente sangue e S. Carlo Borromeo, che stava visitando la nostra Diocesi, sancì la genuinità del miracolo.

Il  15 settembre 1608, alle ore 10 circa, due ragazzi videro la figura di Cristo alzarsi in piedi, spostare la Croce dalla spalla sinistra alla destra e nuovamente sudare sangue, mentre il manto in origine rosso e blu, divenne bianco bordato in oro; apparve un’aureola attorno al suo capo e i segni della Passione sulle mani e sui piedi: l’immagine del Portacroce si trasfigura quindi nel Risorto.

Così trasfigurata, l’Icona miracolosa del Santo Jesus anche in seguito continuò a dispensare grazie. Per corrispondere alla continua e intensa devozione dei fedeli, attorno all’immagine venne eretta una cappella addossata al muro del convento.

La chiesa venne consacrata nel 1427, dopo che nel 1422 San Bernardino soggiornò per la seconda volta a Bergamo, intervenendo sulle questioni delle fazioni avverse dei guelfi e dei ghibellini, e ne ordinò la costruzione nei pressi di una precedente intitolata alla Carità (o a Santa Margherita?). Una descrizione di fine Cinquecento narra che la chiesa, dedicata all’Assunzione di Maria, e il convento erano bellissimi, quest’ultimo dotato di biblioteca, studio, spezieria e inserito in un bosco chiuso tra i broli. All’inizio del Settecento, invece, si parla della vastità dei chiostri: ai piani superiori si trovavano i dormitori, al piano terra le camere per il riposo e la meditazione, il refettorio, la spezieria, l’infermeria, i locali per la tosatura dei settanta frati; tutt’intorno si sviluppavano il frutteto, l’orto cinto da mirto, tabacco e ginestra, i pozzi, la stalla e il fienile oltre alla splendida cornice data dal bosco di salici, pioppi, olmi, frassini e querce.

A partire  dal 1857, a causa della risistemazione urbanistica della città che prevedeva la realizzazione di un grande viale che collegasse la stazione alla Porta di Sant’Agostino, la chiesa viene abbattuta e poi riedificata in una sede leggermente spostata rispetto alla precedente locazione.

Nel  1889  dopo la demolizione dell’antico convento, l’affresco con Cristo in atto di cadere sotto il peso della Croce fu traslato nell’apposita cappella all’interno della nuova chiesa di S. Maria Immacolata delle Grazie. L’Icona del Santo Jesus è tuttora centro di immutata devozione, sincera pietà e ardenti preghiere.

Tra i devoti più ferventi vi era  Papa Giovanni, che nella Grande Guerra celebrava regolarmente come cappellano militare la Messa per i soldati in questa chiesa. “Si prega così bene là, in quella cara Cappella del Santo Jesus”sosteneva Giovanni XXIII parlando di questo edificio sacro.

 

L'impianto attuale della chiesa a croce greca in stile neoclassico, si deve all'architetto Antonio Preda, che riuscì a creare un edificio importante che ben si collocasse nella nuova situazione architettonica della città, rendendo così il monumentale complesso delle Grazie cuore della città.

Tuttavia, dell'antico complesso si conservano ancora il chiostro e molte delle opere d'arte come il citato  affresco miracoloso del Santo Jesus sull’ altare ligneo di Caterina Caniana (1761),

Altre opere sono la “Madonna e Santi” di Giambettino Cignaroli (1752), “Madonna e San Diego” di Enea Salmeggia (1594) e molti altri affreschi. La decorazione pittorica della chiesa, che culmina nella Gloria di Maria (1865-68) dipinta nella cupola, è opera di Enrico Scuri  , allora direttore della Scuola di pittura dell'Accademia Carrara di Bergamo.

Borgo di Olera e Chiesa Parrocchiale di San Bartolomeo Apostolo-Via Olera 36, Alzano Lombardo (BG)

Olera è un piccolo borgo medievale circondato dal lussureggiante paesaggio collinare. Si trova in una piccola valletta laterale, parallela alla valle del Nesa, che degrada dalle pendici del Canto Alto ed è compresa tra i monti Zuccone e Colletto, propaggini situate sul lato orografico destro della bassa ValSeriana. Posta a un’altezza di circa 520 metri, è collocata nei pressi dello spartiacque con la Val Brembana. Grazie all’ampia strada che sale da Nese, ci si arriva facilmente, anche se solo all’ultimo tornante il paesino svela al visitatore i suoi tetti di coppi rossi.

Distante circa cinque chilometri da Alzano Lombardo (di cui è frazione), il centro di Olera è un susseguirsi di archi, portoni, finestrelle e viottoli che rievocano quell’atmosfera tipica dei borghi contadini del passato, in cui la vita era scandita dal ciclo delle stagioni.

È davvero una manciata di case addossate le une alle altre attorno alla Parrocchiale (eretta nel 1471, ma l’attuale edificio in stile neogotico è relativamente recente: tra il 1875 e il 1880 la chiesa fu completamente riformata).

La storia di Olera è molto antica. Il primo documento conosciuto in cui appare il nome Holera, risale al 1165 ed è custodito nella Biblioteca Civica di Bergamo. È una pergamena scritta in latino in cui si parla di un certo Lanfranco Scaroto e dei figli di Pietro Penezza che avevano contrasti riguardo alle decime con i canonici della Chiesa di S. Vincenzo e di S. Alessandro, in Bergamo.

Da quanto riferisce il Mandelli, nel suo libro Alzano nei secoli, un certo Alberto Acerbis, discendente da una della più ricche e antiche famiglie bergamasche, fece costruire nel 1296, nella sua Villa d’Olera casa e chiesa. Certamente questa iniziativa fu importante per l’organizzazione del piccolo paese, ma Alberto Acerbis non può essere considerato il vero fondatore di Olera. Rintracciare il periodo e il motivo per cui fu fondata Olera è pressoché impossibile e anche sull’origine del nome diverse sono le ipotesi.

Le persone più anziane di Olera si ricordano ancora quando il cibo veniva cotto con le «öle», recipienti di pietra ollare di colore verdastro ricavata proprio dalla montagna su cui è posta Olera, di fronte al monte Solino.

Così Olera certamente significa luogo delle «öle».

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Gli abitanti del posto erano gente tenace. La maggior parte delle famiglie di Olera possedeva capre o pecore e qualche mucca; quasi tutti lavoravano la terra sui terrazzamenti (Ruc) piantando orzo, grano, vite e più tardi il mais. Qualcuno invece lavorava nel preparare le pietre coti e le olle per la cottura dei cibi.

Proprio per la maestria con cui i suoi abitanti sapevano tagliare le pietre, il nome di Olera era fin dall’antichità conosciuto in tutto il territorio che fu di dominio veneto.

Al centro del borgo la parrocchiale, dedicata a San Bartolomeo apostolo

La Chiesa Parrocchiale di Olera, dedicata a S. Bartolomeo Apostolo, è la più grande ma non certamente la più antica. Sappiamo infatti della presenza di più chiese, tre, due delle quali molto vicine, aventi la facciata sullo stesso sagrato.

E' eretta questa chiesa parrocchiale di Olera l'anno 1471 sotto il titolo di S. Bartolomeo Apostolo come si vede nell'iscrizione posta sopra la porta maggiore

Bisogna notare che la chiesa grande è costruita su un torrente, che ancor oggi scorre sotto di essa e si può vedere, essendo stata posta una griglia a lato del campanile. E' logico pensare che, non bastando più la chiesa vecchia, si costruì sul poco terreno disponibile una chiesa più capace, e per sfruttarlo al massimo si utilizzò anche la superficie del torrente

Colpita poco tempo dopo il 1471, data di erezione, da un fulmine venne dichiarata pericolante dal Comune di Poscante, e ne fu proibito l'accesso.

Per questa proibizione si usò la Chiesa della SS. Trinità come Parrocchiale.

Negli anni seguenti però la Parrocchiale dovette essere stata sistemata perché S. Carlo Borromeo, nel 1575, il 22 settembre, la trova sufficientemente ampia e decorosa.

Forse già in questo periodo esisteva il polittico di Cima da Conegliano perché S. Carlo parla di una grande icona, dorata e ornata, esistente sull'altare maggiore

Custodisce infatti ,il noto polittico  (Il polittico dal greco poli- "molti" + ptychē "piega") è, originariamente e per definizione, una forma d'arte sacra, una pala d'altare costituita da singoli pannelli separati, racchiusi da una cornice) di Cima da Conegliano

Cima da Conegliano, soprannome di Giovanni Battista Cima (Conegliano, 1459/1460 – Conegliano, 1517/1518), è stato un pittore italiano cittadino della Repubblica di Venezia, tra maggiori esponenti della scuola veneta del XV secolo.

Il polittico è formato da nove pannelli disposti in tre ordini intorno ad una nicchia contenente una statua lignea raffigurante San Bartolomeo. Il nome di San Bartolomeo  compare nell'elenco dei dodici inviati da Cristo a predicare; compare poi ancora negli Atti, dove viene elencato assieme agli altri Apostoli dopo la risurrezione di Cristo. Con ciò terminano i dati documentari.  La tradizione racconta della sua vita missionaria in varie regioni del Medio Oriente. Secondo alcuni si spinse fino in India. Sarebbe morto scuoiato. Nell'iconografia tradizionale san Bartolomeo viene raffigurato sia con in mano il coltello e la Bibbia

 

Il pannello centrale rappresenta la Madonna col Bambino  : è  una delle tipiche Madonne del Cima,  nella sua quieta tenerezza e  nei tratti tristi e dolci insieme; La Madonna (a mezza figura) tiene il bambino Gesù ritto sopra un parapetto in un clima di sospesa contemplazione.  I due pannelli laterali a sinistra raffigurano San Girolamo e Santa Caterina, mentre a destra  sono Santa Lucia e San Francesco. I pannelli inferiori, a figura intera, rappresentano San Sebastiano e San Pietro a sinistra, San Giovanni Battista e San Rocco a destra. E' probabile che il polittico sia stato commissionato al Cima da originari del luogo emigrati a Venezia.

 

L’opera è notevole non solo per la sua qualità, ma anche perché giunta fino a noi praticamente completa e pochissimo manomessa. Non so sono conservate solo le tavole, ma anche la cornice, bellissima, con la lunetta apicale con il Padre Eterno tra cherubini e la statua centrale di san Bartolomeo. A Venezia, dove fu certamente eseguita, non sono molte le opere giunte così complete ed è quindi un tassello importante anche per la storia dell’intaglio ligneo veneziano.  Certo l’opera è ancora avvolta dal mistero: ancora oggi molti sono i vuoti di notizie sulla sua vicenda: perché e da chi fu commissionato, come giunse ad Olera e in quali anni. Vuoti dovuti certo alle inevitabili perdite di documentazione nell’arco di cinque secoli ,all’incendio dell’archivio parrocchiale nel 1630, ma anche alla posizione decentrata e solitaria della parrocchia.

Poche , ma significative, le certezze: il polittico è stato, per quanto concerne la parte lignea,  eseguito a Venezia da artigiani di una bottega affermata  ( i Bianco)  e da essi montato  in loco (si sa da documenti relativi ad altre opere del Cima che i committenti dovevano accollarsi non solo le spese per il viaggio dell’opera, ma vitto e alloggio a chi era incaricato dell’assemblaggio) . Non ha più  contestazioni anche l’acquisizione del polittico ad un giovane Cima da Conegliano ( nato forse intorno al 1460) e  già residente e attivo a Venezia nel 1486.

Cima da Conegliano, soprannome di Giovanni Battista Cima- Forse figlio di Pietro, "cimatore"  (   nel taglio della peluria del tessuto su pezze finite)       di panni, nacque a Conegliano nel 1459 o '60- Conegliano, 1517/1518),

Le scarse notizie emerse a proposito delle sue origini lo descrivono come figlio di un cimatore di panni connesso all’industria laniera e nato appunto a Conegliano tra il 1459 e il 1460.

Se la paternità non è più in discussione resta l’ enigma relativo alla committenza del Polittico di Olera : poco convincente l’idea che l’opera più che dono di emigranti in Laguna sia stata commissionata dall’intera popolazione di Olera che si sarebbe affidata ad uno o più concittadini residenti a Venezia. Certa è la presenza di molti oleresi in Laguna, ma perché la scelta cadde su un artista ancora poco noto seppur di belle speranze affiancato da intagliatori affermati? Allora mi pare più affascinante potrebbero avere ingaggiato la giovane gloria locale ormai trasferitasi a Venezia.

Sempre nella parrocchiale è custodita, a fianco dell’altare sinistro, dedicato alla Vergine, un’altra notevole opera d’arte: una splendida icona veneto-cretese della metà del XVI secolo conosciuta come Icona della Madre di Dio della Passione. L’ordine della tipologia della Madre di Dio della Passione, estremamente diffusa tra gli artisti del XVI-XVII secolo che ripeteranno fedelmente lo stesso modello, è certo attribuibile a uno dei più importanti artisti della seconda metà del XV secolo, Andrea Rizo Da Candia, ma anche le circostanze del suo arrivo e della sua collocazione nella parrocchiale di Olera restano un enigma.

Le prime ipotesi ripercorrono l’idea che un certo numero di artigiani residenti a Venezia, evidentemente buoni conoscitori d’arte e ben pagati vista la loro perizia, avessero riportato con sé al paese l’icona della Vergine come espressione della loro devozione.

Fra Tommaso da Olera

Recentemente si è parlato molto di Olera grazie al mistico cappuccino Tommaso Acerbis, più conosciuto come fra Tommaso da Olera (dove nacque nel 1563) beatificato il 21 settembre 2013 nel 450º anniversario della nascita

Fisicamente robusto, vestito di saio marrone, corda francescana ai fianchi, con barba incolta alla cappuccina, dai capelli tendenti al rosso (era infatti chiamato “Il Rosso”), con bella fronte ampiamente stempiata è questo il ritratto di fra Tommaso da Olera .  Era noto come “frate della questua”, attività alla quale si dedicò con zelo in molte parrocchie di quella che era allora la Repubblica di Venezia. Di questi cercatori o questuanti ora  non c’è più posto sulle strade troppo movimentate e in un mondo assai evoluto. E’ una figura che non si vuol più vedere. Ne conserviamo qualche fotografia, in album, con la dicitura “scene d’altri tempi”.

Ormai avanti negli anni   fra Tommaso sintetizzerà così la sua vita: «Io non ho mai studiato né letto libro immaginabile, e non mi vergogno; io son converso, cioè laico della religione serafica capuccina, che per 38 anni non ho atteso ad altro ch’a far la cerca per poveri fratti […]; e al secolo io era pastore di peccore, povero contadino…..Se tu mi conoscessi, stimaresti una maraviglia grande, anzi un miracolo ch’io ignorante, senza mai aver letto o studiato, abbi potuto scrivere cose tali essend’io il più vile di tutta la mia religione. E al secolo io ero pastore di peccore, e nella mia religione 36 anni son stato cercatore

e lavatore di scudelle».

E ancora: “L’amor di Dio sta ne’ cuori umili”. La sua vita si rispecchia profondamente in queste parole.

Stiamo parlando di Tommaso Acerbis de Viani , più noto come Fra Tommaso da Olera : nasce nel 1563 mentre la Chiesa cattolica concludeva il Concilio di Trento,  appunto ad  Olera allora piccolo borgo con  povere abitazioni  e una casa gentilizia (  che ancora esiste incuneata nei corridoi stretti di straducole e scalini in pietra)  con le insegne di un'antica famiglia , gli Acerbis, già in quegli anni decaduta e costretta a vivere di modesta pastorizia. Cresciuto quindi nella povera famiglia Acerbis (un tempo, gloriosa), aveva condiviso con i genitori Pietro e Margherita stenti e lavoro. Non aveva frequentato alcuna scuola, perché non ne esisteva una in quel borgo, sperduto fra i monti Solino e Canto Alto, e composto da circa trecento anime.

A diciassette anni lasciò le pecore che  accudiva per bussare al Convento dei Cappuccini di Verona, sua provincia ecclesiastica. L’analfabeta di Olera venne accolto dai cappuccini  dimoranti in borgo Santa Croce di Cittadella e Il 12 settembre 1580 vestì l’abito  proponendosi di vivere il loro spirito. In quello stesso convento, cinque anni prima, era entrato san Lorenzo da Brindisi , che più tardi sarà

eletto vicario generale dell’Ordine;  nel 1959  viene proclamato , da Papa Giovanni XXIII,  dottore della Chiesa col titolo di  doctor apostolicus.

Tommaso mantenne il nome di battesimo come san Felice da Cantalice. Non ebbe altra scuola, se non quella del triennio di noviziato, durante il quale apprese i primi rudimenti di lettere, in deroga alla dura regola conventuale, che vietava espressamente d'insegnare a leggere e scrivere a chi già non lo sapesse fare

Il 5 luglio 1584 i  superiori gli consegnarono la sporta della questua e gli chiesero di camminare ogni giorno, domandando per amor di Dio il pane e il necessario per i suoi frati e per i poveri che bussavano alla porta del convento. Tommaso camminò per obbedienza e in umiltà a Verona fino al 1605, a Vicenza fino

al 1612, a Rovereto fino al 1617; unica sosta, nel 1618, come portinaio del convento di Padova.

Va precisato che quando si parla di questua ci riferiamo all’attività del frate che va per le vie e per le case non soltanto per chiedere l’elemosina, ma anche per prestare un servizio spirituale. Attraverso la questua, l’apostolato si fece non soltanto più prossimo alla gente ma trovò anche l’ambiente propizio per la diffusione del carisma francescano cappuccino.

Questi frati che percorrevano le vie, visitavano le case e soccorrevano i più bisognosi,  costituivano di fatto il primo contatto di  molti con l’Ordine. Attraverso la questua, i frati diventarono l’immagine dell’Ordine.

“Le Fonti Francescane tratteggiano ampiamente e con ricca dovizia di particolari proprio quello che può essere ed è  definito “l’elogio della mendicità“. Il Capitolo IX delle Fonti tratta proprio “Del chiedere l’elemosima” e così esordisce: “Tutti i frati si impegnino a seguire l’umiltà e la povertà del Signore nostro Gesù Cristo, e si ricordino che nient’altro ci è consentito di avere, di tutto il mondo, come dice l’apostolo, se non il cibo e le vesti, e di questi ci dobbiamo accontentare“.

L’ “umiltà e la povertà di Gesù Cristo” che non “si vergognò; e fu povero e ospite, e visse di elemosine lui e la beata Vergine e i suoi discepoli” per Francesco deve essere dunque elevata a “regola” di vita. Regola di vita, mezzo, non fine a se stesso, per giungere al bene superiore: “il vantaggio delle anime“. E  la questua procurava  vantaggio all’anima del questuante come fonte di umiliazione facendogli vincere l’amor proprio e ogni residuo di superbia, ma  i frati questuanti procuravano anche   vantaggio alle anime di coloro che donavano: “grande ricompensa la fanno guadagnare e acquistare a quelli che la donano; poiché tutte le cose che gli uomini lasceranno nel mondo, periranno, ma della carità e delle elemosine che hanno fatto riceveranno il premio dal Signore“.

Ma torniamo a fra Tommaso: oltre ai luoghi citati , cronologicamente certificati, lo troviamo per qualche tempo a Conegliano, Udine, Ala,Trento. Erano anni, quelli, in cui la mobilità dei frati si coniugava (soprattutto fra i migliori) con la loro totale disponibilità.

Anno Domini 1619: preoccupato dal minaccioso diffondersi della satanica eresia protestante anche nei suoi domini, il religiosissimo arciduca Leopoldo V d’Austria, governatore del Tirolo, venuto a conoscenza della fama di mistico e di taumaturgo del frate cappuccino Tommaso da Olera, decide di farlo trasferire dal convento di Padova a quello di Innsbruck, per aiutarlo a meglio contrastare i seguaci di Lutero. Questo convento cappuccino, primo del mondo tedesco, era stato fondato nel 1593 da un’italiana, l’arciduchessa Anna Caterina d’Asburgo, nata principessa Gonzaga

Nel 1619  quindi  richiesto dall’arciduca del Tirolo, Leopoldo V, Tommaso  si stabilì a Innsbruck dove morirà il 3 marzo 1631   Anche nel convento dei cappuccini in Austria, Tommaso continuò a essere quello che era sempre stato per quasi cinquant’anni: un frate della questua, un frate sulla strada. Mendicava pane , lavava i piatti, evangelizzava poveri e ricchi . Frequenti anche i contatti con i potenti la cui attività politica indirizzò e consigliò : andava quasi ogni giorno a corte dell’arciduca Leopoldo che a sua volta andava spesso pressola sua cella, ebbe una certa influenza sull’imperatore Ferdinando, fu amico del duca Masimiliano I ; fu in relazione col principe vescovo di Trento Massimiliano Madruzzo, intervenne presso i baroni Fieger di Friedburg convincendoli a combattere l’eresia protestante nei loro possedimenti.

Ma era in continuo movimento : gli ultimi tredici anni, gli anni della maturità, per missioni particolari e benedetto dai superiori, sono caratterizzati da numerosi e significativi spostamenti in Italia, Aistria e Germania.  Andò a Bolzano, Loreto, Roma, Venezia, Vienna, Monaco, Linz, Salisburgo e ad Hall dove conobbe il medico Ippolito Guarinoni.

Della personalità del fraticello , che era solito definirsi nelle sue lettere” fessa sterco de’ peccatori”, sappiamo molto proprio grazie alle memorie, che,  tra gli altri,  lasciò l’amico Ippolito Guerinoni.

Il ritratto che ne esce è quello di un sant’uomo di irreprensibili costumi e costantemente  innamorato di Dio.

Dalle altre numerose testimonianze raccolte tra il 1633 e il 1634 Tommaso da Olera appare innanzitutto come uomo di Dio,  come profeta, scrutatore di coscienze, discernitore del vero dal falso misticismo, pacificatore, apostolo, taumaturgo, operatore di miracoli e di conversioni, taumaturgo da vivo e da morto, dotato di spirito profetico( previde , tra l’altro, l’elezione a imperatore del futuro Ferdinando II, la  vittoria dello stesso sui danesi nella battaglia  alla Montagna Bianca dell’8 novembre 1620, nonché la morte dell’arciduchessa Cristina sorella dell’imperatore tre mesi prima dell’evento).  Gli fu rivelato in visione il giorno esatto ( 12 luglio 1462) in  cui era stato  martirizzato il beato Andrea da Rinn; la Vergine gli comparve due volte la seconda nel 1629 accompagnata da San Lorenzo da Brindisi.

Tutti , religiosi e  laici , per attestazione diretta o indiretta, narrano della sua grandissima umiltà e pazienza, del suo essere stato attivo e contemplativo insieme, afflitto da scrupoli morali e religiosi e, come diremo in seguito, “atleta contro il demonio”.

Ma aveva un carattere deciso e lo dimostrò quando osò disapprovare  proprio  l’imperatore d’Austria Ferdinando II quando questi, nel 1628, decise di inviare contro Mantova un esercito di trentaseimila lanzichenecchi, per risolvere il problema della successione al trono. Tommaso non fu ascoltato, ma sull’imperatore e sulla Germania piovvero, nefaste, le conseguenze profetizzate.

Di casa in casa significava, per lui, di anima in anima. Un dialogare con tutti. Un parlare di

Dio e delle cose di Dio. Che se il prete predicava la verità dal pulpito e dall’altare, lui Frate

Tommaso, si sentiva obbligato a predicare la verità dovunque entrasse. In piedi, sugli usci

delle case e nei cortili, o seduto familiarmente in cucina su un povero scanno.

Fu con tale impostazione che riuscì ad essere cercatore ed apostolo.

La fede   era certamente  in lui una realtà viva, una verità divenuta un’esperienza luminosa, tanto che il citato  medico Ippolito Guarinoni, nelle sue Memorie, riferiva un detto a questo proposito significativo del Servo di Dio: “La nostra fede è cosí certa, è così vera, che io non piú la credo, ma lo so; anzi sí, che io la so”. Sempre secondo il Guarinoni Fra Tommaso parlava solo di Dio, pregava e piangeva, rapito in estasi frequenti . Anticipò il culto del Sacro Cuore , era devotissimo alla Vergine per la quale volle fortemente che l’amico medico facesse costruire una chiesa presso Volders, la prima eretta ( 1654) in terra tedesca dedicata all’Immacolata duecento anni prima la consacrazione del dogma.

Ma  soffrì molto in quanto dovette sopportare , tra il 1590 e il 1619, trent’anni di vessazioni diaboliche.

Padre Luca da Trento riferisce infine alcuni particolari meravigliosi della sua morte : “Il padre

Guardiano che assistette alla morte di fra  Tomaso dice che quel Cristo e Crocifisso che volse per sua devotione, lo mangiò mezzo da tanti bacci e d’abbracciamenti che li diede (è parola sua) e molte cose... Dicono che furono uditi gli Angeli cantare sopra la sua sepoltura per tre giorni..., nella sua morte non faceva

altro che predicare incessantemente il disprezzo del mondo e l’amore di Dio a’ circostanti.

Fra Tommaso che, da figlio della montagna bergamasca, prima, e da fratello della cerca, poi, è diventato

l’illuminato da Dio e il ricercato dai potenti della terra: consigliere sia dei vescovi della Riforma cattolica, sia dei signori della Casa d’Austria. Non solo: uno che, obbedendo ai superiori, ha messo su carta quanto Dio gli dettava nel cuore.

Benché i contemporanei parlassero di lui come un «huomo senza lettere» ed egli stesso affermasse: «Né

ho mai letto una sillaba de’ libri, ma bene mi fatico a leggere il passionato Cristo», da alcuni anni i suoi scritti sono stati recuperati in una notevole edizione critica curata da Alberto Sana che richiama per il cappuccino bergamasco l’espressione di «idiot savant», evocante quella galleria di «selvaggi, idioti agli

occhi del mondo, depositari di una sublime scienza del cielo incomprensibile ai più,

e spesso a loro stessi». Davvero Tommaso può essere definito così? Si è trattato di

un illetterato sapiente? Andando a rileggerci cosa annotava il suo confratello fra Ilarione da Mantova ci si imbatte in frasi come questa: «L’ho veduto molte volte doppo la Comunione ritirarsi in cella a scrivere cose di meditazioni della vita et passione del Signore; et havendomi egli alquante volte lette quelle sue opere spirituali doppo scritte, confidentemente mi affermava […] ch’egli per se stesso non poteva capire come havesse poste quelle cose in carta”

Nonostante la sua scarsa alfabetizzazione Tommaso, dunque,  fu anche scrittore: oltre una trentina di lettere , perlopiù autografe, di lui si conservano scritti devoti ed ascetici e un trattato per ricondurre i “fratelli heretici” protestanti alla vera fede.  Si tratta di scritti spesso “sgangherati” nella morfologia e nella sintassi ma precisissimi per quanto pertiene alla pietà e alla pratica ascetica.  Quasi tutto fu stampato per la prima volta ad Augusta nel 1682. La editio princeps  porta il titolo collettivo di Fuoco d’amore mandato da Christo in terra per essere acceso , ouero amorose compositioni di fra Tommaso da Bergamo laico capucino.

La prima delle opere è la Selva di Contemplazione, la seconda La scala di perfezione opera in cui  si delinea perfettamente la dottrina ascetica di Tommaso.

L’ultimo degli scritti pubblicato nella princeps è un trattato per riconvertire i luterani e calvinisti  a Roma: Concetti morali contra li eretici del 1620.

Del resto va ricordato che nel sud della Germania protestante e a nord di Trento (città del concilio), il problema del momento era appunto quello di conservare la fede cattolica nelle popolazioni che erano minacciate di perderla, per cui  si capisce il significato dei suoi scritti, come Selva di contemplazione, dove inizia la propria riflessione partendo dalla Sacra Scrittura.

Mentre Lutero ne aveva offerto un testo in una lingua comprensibile ai suoi contemporanei, appunto in tedesco, il nostro cappuccino, pur  a mala pena capace di analizzare i testi, si sentiva in grado di offrire una rivisitazione di vita, morte, resurrezione, ascensione al cielo del Salvatore e della sua Madre, dedicando il testo all’arciduchessa d’Austria, sposa di Leopoldo, arciduca d’Austria e Tirolo. Ne spiegava pure la ragione col voler “infiammare la volontà e muovere l’affetto, per innamorarsi e trasformarsi in questo nostro vivente Dio”, consapevole della possibilità con il suo scritto di “sollevarli con lo spirito alli eterni e increati beni meditando, contemplando, gemendo e lacrimando la vita, la passione e morte del nostro Redentore”

Dopo la  morte di fra Tommaso  emissari dell'imperatore Ferdinando II cercarono di far avanzare le pratiche per avviare l'iter della beatificazione, ma le continue guerre che si susseguivano in quei tempi non permisero all'iniziativa di andare a buon fine.

Soltanto nella seconda metà del XX secolo vennero avviate le pratiche. La fase preparatoria del processo di beatificazione si aprì tra il 1963 ed 1966, mediante due processi distinti: uno promosso a  Bergamo e l'altro a  Innsbruck. La chiusura degli stessi avvenne il 19 aprile 1968, mentre il passo successivo fu l'approvazione della Positio super virtutibus (7 marzo 1979) presso la Congregazione dei Santi. Quest'ultima, il 23 ottobre 1987 dichiarò le sue virtù vissute in modo eroico.

Nel 2006 a Bergamo venne aperto il processo "Super Miro", che si concluse il 3 ottobre dell'anno seguente, con gli atti della causa approvati dalla Congregazione dei Santi il 16 gennaio 2009.

L'ultimo passo verso la beatificazione fu l'attribuzione, ufficializzata il 22 ottobre 2011, della guarigione di un infermo. Questa risale alla notte tra il 29 ed il 30 gennaio 1906 quando Bartolomeo Valerio, allora trentunenne del paese di Thiene (in provincia di Vicenza), guarì da un ileotifo complicato da pneumonite in seguito all'intercessione chiesta dai familiari tramite un'immagine di Fra Tommaso che venne posta sotto il cuscino del malato.

Il 10 maggio 2012 papa Benedetto XVI firmò quindi il decreto della beatificazione.

Il 21 settembre 2013, anno del 450º anniversario della nascita di Fra Tommaso, venne beatificato nella Cattedrale di Bergamo in una cerimonia presiedtua dal Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, e concelebrata dal Vescovo di Bergamo monsignor Francesco Beschi, dal vescovo di Innsbruck monsignor Manfred Scheuer e da numerosi altri vescovi e superiori dell'ordine dei Frati Cappuccini

È stata una sorta di gemellaggio spirituale che ha unito Bergamo, e più precisamente Olera,  con il Tirolo, e in particolare Innsbruck, attraverso molte città del Veneto. Tante delegazioni delle varie comunità, accomunate dal passaggio della vita e delle opere di un umile fraticello del Seicento,  alle 17.25 nel Duomo di Bergamo hanno salutato con un applauso lo svelamento di una icona sull’altare con il ritratto di Fra Tommaso da Olera, il momento di maggiore coinvolgimento emotivo del rito di beatificazione.

Il nuovo Beato è stato certamente un modello di vita cristiana. Paolo VI lo indica come “fulgido esempio di fedeltà, zelo e dedizione” e, ricordando il quarto centenario della nascita del beato Tommaso (1563-1963): «Possa il ricordo di quell’umile figlio della forte terra bergamasca spingere i sacerdoti e i fedeli a sempre maggiore donazione di sé nell’adesione consapevole alla verità rivelata, nell’impegno di testimonianza cristiana in tutti i settori della vita». (Dal Vaticano, 22 novembre 1963).

Giovanni XXIII lo definisce “un Santo autentico e un maestro di spirito”.

«Ricordo ancora l’impressione che mi fece, la gioia provata da papa Giovanni quando il 24 novembre 1959 ricevette in dono da un signore d’Innsbruck (dott. Giuseppe Mitterstiller) il libro Fuoco d’amore di fra’ Tommaso da Olera».

Chi scrive è monsignor Loris Capovilla, allora segretario di papa Giovanni:

«Rammento bene che il Papa asserì di ritrovare in esso una sua vecchia conoscenza, cioè questo laico cappuccino, di cui dalla sua giovinezza conosceva la vita, le opere, ed inoltre la fama di santità che godeva in Alto Adige […]. Papa Giovanni rileggeva frequentemente le pagine di questo Fuoco d’amore, che tenne sempre in evidenza sul suo tavolo, assieme ai libri di preghiera e di meditazione; anzi più volte me ne lesse copiose pagine, commentandole e pronunciando giudizi di alta stima e venerazione per il pio scrittore. […] Diceva che fra’ Tommaso doveva essere stato condotto certamente dallo Spirito del Signore a stendere pagine così limpide ed in conformità con l’ortodossa dottrina».

Giovanni Paolo II lo ricorda come “il fratello del Tirolo, che ha confermato alla fede contadini e principi del XVII secolo” Nel 2012, Benedetto XVI firma, come dicevamo,  il decreto che riconosce il miracolo della guarigione straordinaria, nel 1906, di un giovane agonizzante. Papa Francesco, nella Lettera apostolica di Beatificazione, afferma che il Beato Tommaso, contemplando il Cristo Crocifisso, fu “testimone e annunciatore ardente della Sapienza divina”.

 

Nella serafica religione de’ padri capuccini […]

vedrai un nuovo mondo:

quali vivono con orridi abiti, anzi dirò cilici,

con digiuni frequenti, in continua mortificazione

sotto un’ardua obedienza e umiltà; […]

nientedimeno li vedi contenti, allegri nel suo Signore e Dio

Tommaso da Olera, Scala di perfezione,

Santuario Beata Vergine Maria del Monte Perello- Frazione Sambusita, 24010 Algua BG


Il  Santuario della Madonna di Perello, anticamente denominato "Oratorio della Beata Vergine Maria ad Elisabetta nel Bosco del Perello", si trova sulla strada che da Selvino porta alla Valle Serina, ed è uno dei più antichi della Bergamasca.

APPARIZIONI

Era il 2 luglio dell'anno 1413, un tempo festa della Visitazione di Maria: il contadino Ruggero Gianforte De Grigis di Rigosa si trovava sul monte Perello intento a falciare fieno. Ad un tratto vide davanti a sé una bellissima Signora. In un primo momento incerto della visione si dice che non fece nessun cenno di riverenza. Ben presto nella seconda apparizione il buon contadino si scoprì il capo e si pose in ginocchio davanti ad essa. Di fronte a questo gesto, la Madonna prese la parola chiedendo a Ruggero di riferire ai suoi compaesani che in quel luogo venisse costruita una chiesa in suo onore ed in venerazione del mistero della sua visita a Santa Elisabetta. Nella terza e quarta apparizione per confermare il suo desiderio e vincere l'incredulità dei vicini, la Signora promise e poi fece nascere da un ceppo di faggio rinsecchito un ramoscello d'olivo. Gli abitanti di Rigosa e Sambusita su invito del veggente si recarono sul posto, constatarono con i loro occhi il miracolo e si misero all'opera. Iniziarono cosi a costruire la prima delle tre chiese che oggi compongono il complesso del santuario. In questa prima chiesa venne rinchiuso il ceppo di faggio secco su cui era spuntato il ramo d'olivo.

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La struttura attuale risale al XVI secolo e all’interno sono conservati interessanti affreschi coevi. Il Santuario della Madonna del Perello è immerso in una radura nel bosco. L’edificio racchiude ben tre chiese una dentro l’altra, testimonianza della fortissima devozione popolare. Qui infatti la Madonna apparve come dicevamo  nel 1413 (la seconda più antica apparizione in provincia di Bergamo!) e in suo onore si realizzarono adorabili affreschi medievali e numerosissimi ex voto.

La cripta

La parte più antica è quella che viene chiamata la cripta e che conserva il ramo di ulivo inserito nella predella di marmo del gruppo scultoreo nel 1705 dal vescovo di Bergamo Luigi Ruzzini.[9] L'aula di piccole dimensioni, e con volta a botte affrescata, è illuminata da una piccola finestra e termina con il presbiterio che mantiene il dipinto a fresco, opera di ignoto, della Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta.

 

La seconda chiesa

La presenza della seconda chiesa è confermata nei primi anni del XVI secolo dalle note presenti sui registri contabili dell'archivio della chiesa e dei romiti. Originariamente era aperta sul sagrato con un'ampia apertura ad arco. La continua trasformazione e ampliamento del complesso mariano nasce probabilmente dalla posizione impervia, sicuramente aveva subito nel tempo danneggiamenti causati da smottamenti e da valanghe. L'aula che secondo gli atti della visita pastorale del Borromeo, ha subito con il tempo molte modifiche diventando dal 1870 un corridoio di collegamento tra le cripta e la chiesa superiore. Restano a testimonianza gli affreschi e parte della volta del soffitto. Questa parte conserva alcuni affreschi raffiguranti la Madonna del latte.

 

La terza chiesa

La terza chiesa, originariamente di misura inferiore, fu edificata perché la seconda era una chiesa aperta, e serviva un luogo chiuso atto ad accogliere i fedeli che accorrevano sempre più numerosi. La chiesa era presente nel dicembre del 1575. L'edificio è collegato con la parete a nord della seconda chiesa, risulta infatti visibile su questa parete la parte superiore di due finestre, originariamente decorate e poi murate per la nuova costruzione. L'aula di questa era sicuramente più ampia delle altre, la visita pastorale di san Carlo Borromeo la descrive a due campate terminante con il presbiterio voltato: ... Questa sebbene sia con un solo altare è però spaziosa e capace di molto popolo. In questa si celebrano le Officiature solenni ….

 

Venne ristrutturata nel XIX secolo con un ampliamento che ha portato l'aula ad avere cinque campate e l'affrescatura della volta del presbiterio con il cielo stellato, e al centro l'immagine raffigurante l'ultima apparizione della Vergine al contadino. Nel 1939 l'allora parroco don Giovanni Gritti provvide a una nuova ristrutturazione, su progetto di Gianfranco Mazzoleni. All'aula furono aggiunte altre campate che diventarono otto, fece eliminare il seicentesco pulpito nonché coperti gli affreschi e rimosso l'ancora avente per soggetto l'apparizione. Furono aggiunti due altari laterali al presbiterio con le pittura raffiguranti i santi Pietro e Antonio abate patroni della frazione di Rigosa di cui il sacerdote era parroco. La ristrutturazione permise di mantenere la facciata originaria del Seicento, anche se è andato perduto un affresco posto dove è inserito l'ingresso all'aula. Nella seconda metà del Novecento furono rifatti sia l'altare maggiore che la cappella dove è conservato il gruppo scultoreo di Cappuccini di Milano. La nuova chiesa con la posa della pietra sacra sull'altare maggiore ebbe la consacrazione del vescovo Giuseppe Piazzi il 2 luglio 1959.